Investire sicuro in Europa, quali sono i rischi?

Fino a pochi mesi fa l’aver depositato i propri risparmi nell’eurozona rappresentava un investimento sicuro per chi era stato investito in pieno dalla buriana della crisi finanziaria mondiale.

Rendimenti dei titoli di Stato non proprio esaltanti, ma almeno il gruzzoletto era tranquillo nelle mani degli stati europei supportati dalla forza della moneta comune che circola da oltre dieci anni. Appunto, fino a tre mesi fa.
Adesso, ben lontani da lanciare inutili e fuorvianti allarmismi, la nostra giovane e impavida moneta comune mostra i primi segnali di debolezza. Da quasi tre mesi, infatti, la Grecia è protagonista dei turbamenti che hanno colpito i mercati europei.

L’eccessivo grado di indebitamento non soltanto ha messo a repentaglio la stabilità dell’economia ellenica ma anche quella dell’eurozona ( in primis Portogallo, Irlanda, Spagna e in parte anche l’Italia) e in particolar modo della sua moneta.

Cosa ben diversa da quanto avvenuto nei primi anni di questo secolo: sin dalla sua nascita l’euro aveva infatti rappresentato una delle valute più stabili diventando una potenziale alternativa al dollaro come valuta di “riserva”. E adesso? Spetterà alla volontà politica della Ue decidere se in futuro l’eurozona sarà ancora il porto sicuro di tanti risparmiatori. Vedremo.
Nel frattempo, per chi vuole ancora salpare nelle acque tranquille degli investimenti ma vuole stare lontano dai listini azionari, potrebbe risultare utile una strategia di diversificazione “valutaria” dei portafogli. Cioè, cercare di puntare su titoli di Stato di altri paesi che non hanno l’euro come valuta e ricordarsi, comunque, che in questo tipo di investimento bisogna fare attenzione non soltanto al ” rischio paese” ma anche al “rischio valuta”. Ovvero, un rendimento ottenuto da un titolo di Stato deve essere poi decurtato, oppure aumentato, nel momento in cui si vuole “incassare” in euro.
A questo proposito, per verificare le oscillazioni di valore dell’euro abbiamo riportaton l’utile/perdita di un investimento nelle principali valute delle economie industrializzate e dei paesi in via di sviluppo. Il confronto è effettuato negli ultimi tre mesi e nel periodo che va dal 2000 al 2010.

In questo ultimo arco temporale, inoltre, è stata calcolata la perdita di un investimento nelle valute dai loro massimi rispetto all’euro e l’utile rispetto ai minimi.
Per ciascun tasso di cambio, poi, è stata calcolata la volatilità (che rappresenta una misura della rischiosità della valuta). Infine, è riportato il differenziale tra il rendimento dei bond governativi di ciascuna valutae i “corrispondenti” BTp italiani a cinque anni.
Per le valute appartenenti a questo gruppo è possibile osservare come negli ultimi dieci anni l’euro abbia avuto in media una rivalutazione piuttosto consistente rispetto ai minimi. In un’ottica difensiva, il franco svizzero e il dollaro canadese possono rappresentare una valida alternativa (una svalutazione e una rivalutazione in dieci anni relativamente limitata soprattutto per le ultime tre) all’investimento in euro.

La volatilità dei loro tassi di cambio, poi, è contenuta (il 5,5% potrebbe voler dire un rischio “normale”) e, soprattutto, i fondamentali di queste economie (anche dal punto di vista del debito) sono ancora decisamente solidi. Più difficile, invece, valutare i rischi per dollaro Usa, yen, dollaro australiano e neozelandese, il cui valore rispetto all’euro potrebbe oscillare in funzione di molteplici fattori.
Quando consideriamo questo gruppo, invece, è facile osservare come a un minore rating dato al Paese dalle Agenzie e a un maggior valore del differenziale di rendimento (più rendimento vorrebbe dire nella maggior parte dei casi più rischi) corrisponda un parallelo incremento della volatilità del tasso di cambio. In generale le differenze e i rischi variano molto da paese a paese.

Russia, Tailandia e Argentina sopportano un significativo rischio politico; Brasile e Sud Africa sono invece molto legati all’andamento delle materie prime ( agricole per il primo e minerarie per il secondo). La Polonia, infine (che non si può più considerare “in via di sviluppo”), potrebbe rappresentare una buona opportunità di diversificazione valutaria in funzione del ruolo di “best player” giocato tra le economie dell’est